Stavamo attraversando Nezu a piedi. C'era una calma. In ogni angolo c'è un tempio, un cimitero, qualche galleria d'arte, moltissime abitazioni, un negozio di fiori e uno di gallette di riso.
Poi, in una strada laterale, davanti a questo negozio, tentenno: voglio sapere che cosa vende, in quei sacchi troppo grandi. Tiro fuori il telefono, l'app di traduzione è la mia migliore amica in questi giorni. Funziona che scrivo, traduco e poi alzo il telefono e mostro lo schermo all'altra persona. A volte l'altra persona fa lo stesso sul suo telefono e ne viene fuori, diciamo, una conversazione. Non che il sistema sia fluido.
Chiediamo tre etti di riso, il signore sorride divertito. Chiedo se posso scattare qualche foto. Lui chiede se il riso lo vogliamo brown o white. Pesca il riso dal sacco, lo mette su una bilancia che ha una specie di imbuto, con cui poi, con cura, versa il riso in un sacchetto. Non lascia fuori un chicco. Con una macchina, infine, salda la plastica del sacchetto e lo chiude: poi ci mette un'etichetta austera, nera, con parecchi kanji dorati.
Paghiamo in contanti, come si fa in tante attività piccole. Chi riceve i soldi, in genere, li tratta con cura: il resto mi viene passato indietro quasi sempre con le banconote a ventaglio, che sia facile vedere quante sono. Forse è una formalità, non so, forse un'abitudine.
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