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sistrall.it
15 ottobre 2017

Racconto

Ehi, questo post è un contenuto vintage. Risale a più di 7 anni fa: può contenere informazioni errate e non attuali.

Un paio d'anni fa mi sono iscritto ad un corso di scrittura creativa. Questo è il racconto che è venuto fuori alla fine. Ci sono dentro io, in certi momenti.

1. master e slave

«Stiamo aprendo a Cagliari e Londra. A settembre anche Hong Kong», mi dice guardandomi. «Chissà che cosa ne penserebbe Conway», dico io, ma lui non intercetta il riferimento. Allora continuo: «Già molti anni fa ha detto che le architetture software somigliano sempre all’organizzazione che le crea». Gli resta su quell’espressione indagatrice a raggio corto che–penso–durante i colloqui si potrebbe evitare di indossare. L’ufficio è tutto bianco, tranne il Landskröna divano, marrone, punzonato e pur non impegnativo, che mi guarda dalla parete di fondo. Si vede che l’ufficio è stato rinnovato da poco e, appena registro l’informazione, mi sembra di notare nell’aria un lieve odore di vernice. Il pavimento dev’essere quello originale: una graniglia grossolana di nessun colore.

Faccio caso al fatto che il biancore di cui sono circondato dipende largamente, mi sembra, dalla totale assenza di quadri. C’è solo la gigantografia del logo di Stratag, scontato e insignificante: occupa quasi l’intera parete sopra al divano. Questa mattina ho fatto colazione cullando il pensiero che io, di colloqui veri e propri, per trovare un lavoro, non ne ho mai fatto uno. Ricordo i primi: mi portavo nello zaino un certo grado di incertezza tipica di chi comincia e viaggiavo perennemente fuori dalla mia comfort-zone, ma i feedback che ricevevo erano sempre sopra le aspettative e mi restituivano una percezione attutita e distorta di me e delle mie capacità.

Mi aggancio ad una sua riflessione e «Sì», dico, «ci sono casi interessanti. Ricordo una lunghissima discussione: era un gruppo di sviluppatori che cercava un’alternativa alle parole master e slave». Era diventato un caso: se n’era parlato anche nella chat di lavoro. Giorni di flame travolgenti, ma non erano arrivati a nulla: «Continuiamo a usare master e slave, senza pensarci troppo su». Ci portiamo dietro anche un vocabolario vagamente militaresco che a volte–penso–m’infastidisce.

2. deploy

Esco dal suo ufficio scortato da una formale ed energica stretta di mano e attraverso la piazza soleggiata: a cosa fatta, prendo fiato mentre mi si alleggeriscono le mani e i piedi. Punto dritto al Covo. «Ciao, bentornato!», mi saluta Laura, chissà se per natura o per lavoro.

La scrivania dove lavoro è ordinata: apro il portatile alluminio e, allo stesso tempo, si accende il monitor esterno. Devo aver letto chissà dove che i monitor grandi aumentano la produttività: è ragionevole–penso.

Siamo una trentina, regolarmente distribuiti nello stanzone: dalle scrivanie sale un bisbiglio di pensieri. Lavoro in coworking da un po’ e questo non fa altro che aumentare i dubbi di mamma su quel che faccio per vivere. In parte è una questione generazionale. Qualche volta ho pensato di portarla ad un pitch, ma non l’ho mai fatto: una spiegazione di quattro minuti spaccati, interrotta da uno squillo di sirena, non aiuterebbe a chiarirle le idee.

«Mamma, provo a spiegartelo così. È un po’ come se scrivessi libri. Cioè: non da solo, non ci lavoro solo io. Lo faccio insieme ad altri, perché è come se scrivessimo libri molto lunghi, con intrecci molto complicati e, cosa più importante, dettagliatissimi. E nessun dettaglio dev’essere sbagliato. Non possiamo contare sull’indulgenza dei lettori: i nostri lettori sono macchine che non ammettono errori e, appena trovano qualcosa che non torna nel racconto, smettono subito di leggere». Mi era sembrata un’analogia convincente e la sua reazione me lo aveva confermato; e anche se chiariva un aspetto della questione, di certo lei continuava a chiedersi che rapporto ci fosse tra questi metaforici libri e le schermate nere piene di caratteri colorati che aveva visto più volte sul mio monitor quando ancora vivevo a casa dei miei.

La luce è giusta: il Covo è architettura post-industriale e si vede anche dal colore del sole di primo pomeriggio che entra dritto dai finestroni. Dovevano costruirci materassi, qui, una volta. Meglio questa luce–penso–di quel biancume stordente. E poi–penso anche–dovrei smettere di venire qui, se accettassi.

È difficile lavorare dopo il colloquio di questa mattina: serve un certo livello di concentrazione per attraversare tutti gli strati che si sono depositati nel tempo, per andare in profondità, astrazione dopo astrazione. Siamo in cinque a lavorarci, ora, ma il progetto è passato da un gruppo all’altro e di mani ne riconosco molte di più. A volte, tra le righe di programma, oltre allo stile, di chi ci ha lavorato prima di noi distinguo anche l’umore: le giornate no e quelle sì.

Il brusio dei miei dubbi post-colloquio è un rumore di fondo confuso ma ben distinguibile che, a fatica, riesco a silenziare; bussa più volte: non mi faccio corrompere e gli chiudo a chiave la porta. Metto la chat su “Non disturbare”, scelgo la colonna sonora e cambio lo status in “Down into the zone”: ricevo una manciata di faccine-sorriso dai ragazzi.

Il resto del pomeriggio lo passo dietro ad un difetto della trama: è minuscolo, ci metto ore a trovarlo. Quando c’è un difetto nella trama, viene fuori un bug. E questo di oggi è davvero subdolo: ha effetto solo di mercoledì e, prima di capire che era un problema e non una caratteristica del sistema, e prima che riuscissero a raccontarmelo, sono passate settimane.

Perdo il senso del tempo.

Alcune persone mi passano di fianco e io le noto con la coda dell’occhio. Qualcuno ha cominciato ad alzarsi, dopo aver raccolto le sue cose: quasi tutto quel che è servito a lavorare torna a casa nelle borse, negli zaini: di giorno fogli di calcolo e fatture, la sera serie TV. Ho la sensazione di svegliarmi e di iniziare a respirare, anche se sono già sveglio e, quasi di sicuro, di respirare non devo mai aver smesso.

Soluzione trovata, problema risolto. Metto in produzione il risultato del lavoro del pomeriggio. Solita procedura: scrivo in chat ai ragazzi. È una specie di messaggio in codice quello che gli mando, una specie di richiesta di approvazione. Ho uno scambio breve, sempre in chat, ma il processo è rodato e ci mettiamo poco a concludere. Click: deploy.

Se accetto (se accetto), di questo scrivere e pensare a più mani–penso–non resterà molto.

3. commit

Scivolo di fianco alla fila di auto incolonnate, mentre torno a casa: l’aria in faccia mi porta fuori dalla bolla e zittisce quel ticchettio che il pomeriggio di lavoro mi ha lasciato in testa.

Julia arriva poco dopo di me. «Ciao!». Mi saluta concitata, mentre saltella su una gamba e si sfila una scarpa. Fa un passo: mi bacia con un gran sorriso, cambia gamba e lascia cadere l’altra scarpa. «Rossella mi ha messo in prima fila, capisci? E se ha messo in prima fila me, figurati come siamo messe! Ho perso il ritmo, ho sbagliato persino qualche attacco! E… ma… com’è andato il colloquio?»

Le racconto. «Londra! Hong Kong!», dico alla fine.

«E i ragazzi?», dice. Lo fa sempre, quando c’è di mezzo una discussione: nessuna esitazione, dritta al punto. Anche quando io–penso–il punto non lo vedo neanche con il binocolo.

«Eh…», rispondo eloquente.

«”Eh…” cosa?», incalza Julia con un sorriso fatto apposta.

«Lo sai: metto a posto cose che non funzionano. Il mio lavoro è sempre stato raccogliere fili sparsi e metterli in ordine. Se accetto, cambia tutto. Potrei inventarle direttamente, le storie, invece che provare ogni volta a sistemare quelle degli altri quando è già troppo tardi. Ma se accetto, smetterò quasi completamente di scrivere a più mani: dovrò far funzionare, ha detto, “decine di team”».

«È quello che vuoi?». Sa la risposta. Sa anche che «Sto provando a capirlo».

«E quando inizieresti?» All’improvviso sento il peso fisico della decisione: spinge sul calendario per occupare tutti i giorni da un certo punto in poi. «Appena posso», dico, ma non vuol dire quasi niente–penso.

«Mi serve un po’ di tempo, per capirlo.»

Il corso a cui ho partecipato è organizzato da quei bravissimi di Zandegù e tenuto da Marco Lazzarotto: quest'anno lo stesso corso riparte proprio in questi giorni. #sapevatelo

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Sono Silvano Stralla. Faccio lo sviluppatore, mi piace fare fotografie e pedalare biciclette.
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