Quando entro ci sono tre uomini, più un papà giovane e il suo bimbo. È molto piccolo, il bambino.
È piccolo anche l'onsen, più piccolo di quel che immaginavo: la vasca di acqua calda è addossata alla parete di mezzo dell'onsen, che separa, rigidamente, la metà dei maschi da quella per le femmine. Nella metà degli uomini in cui mi trovo la vasca è divisa in due da un divisore di legno.
Uno dei tre uomini è seduto a terra e si sta godendo il suo tempo. Quanto si comunica senza dire niente! Vede, subito, la mia inesperienza: indica prima una parte della vasca, poi l'altra parte e dice, in inglese, "Calda", "Molto calda". Io ho appoggiato le mie cose—lo zaino, la macchina fotografica, le scarpe e i miei vestiti—in uno degli scomparti. Nudo, in piedi sulla pedana di legno, mi guardo attorno.
Su tre lati della vasca c'è una zona, a stento un metro, in cui due dei tre uomini si lavano con grande cura: hanno sapone e un piccolo asciugamano con cui si strofinano vigorosamente e uno dei due, ad un certo punto, inizia a farsi la barba.
Seduti a terra, a tratti usano una delle bacinelle gialle a disposizione: prendono acqua calda dalla vasca e se la gettano addosso. C'è più di una regola, in questa cerimonia, ma quella inderogabile è che l'acqua sporca non deve contaminare l'acqua pulita della vasca: anima e ragione di questo posto, che sgorga già calda da qualche fenditura millenaria del terreno.
Così si pesca l'acqua dalla vasca e, seduti a terra oppure rannicchiati ce la si getta addosso facendo attenzione che la sua destinazione finale sia solo il pavimento intorno alle vasche e, infine, gli scolatoi che bordano la stanza.
L'aria è calda e quasi satura. L'edificio in cui si trova l'onsen è di un legno arancione, ha delle finestre, in alto, riparate da listelli di legno verticali alternati a spazi vuoti. Per un momento, entrano lame di sole pomeridiano. Ne viene fuori un impasto memorabile, di luci, vapori, suoni, colori.
Seguo l'esempio e faccio mia la liturgia dell'onsen: mi siedo a terra in un angolo libero, prendo l'acqua calda dalla vasca e mi lavo. A volte l'alterno con l'acqua fresca di un piccolo rubinetto. Faccio caso al fatto che tutto, di me, dev'essere pulito, prima di potermi immergere: è una specie di diritto-dovere, se dovessi catalogare la cosa.
Quando provo a entrare nella vasca mi meraviglio di quanto è calda l'acqua. Gli altri dodici onsen pubblici di questo piccolo paese hanno tutti vasche estremamente più calde: ci si immerge solo chi sa come fare. Ho scelto questo onsen per via della temperatura. E perché, secondo la leggenda, la fonte da cui sgorga l'acqua fu scoperta da un orso. E per via del colore del legno di cui è fatto.
Cauto, mi siedo sul gradino, con movimenti lenti e controllati, me ne sto con i piedi nell'acqua: aspetto.
Un'altra persona entra e saluta alcuni dei presenti, si toglie i pochi vestiti e si mette a parlare con il signore che mi ha detto "Calda", "Molto calda". Non posso capire quel che si dicono, ma sono sicuro che fanno discorsi di paese: hanno il tono di due che si sono incontrati al mercato, mentre facevano la spesa.
Quando sono pronto, cambio di poco posizione e scivolo dentro la vasca: non ci resto tanto. Ci sto quel tanto che basta a capirli, i bagni pubblici, in Giappone. Ripasso, intanto: i sentō, gli onsen, i rotenburo, che hanno la vasca all'aperto, alcuni anche in posti impensati come in riva al mare o lungo torrenti di montagna. Penso che qui, dove mi trovo, due placche tettoniche si contrappongono, a tutta l'energia che ne viene fuori, da questa spinta. Mi chiedo quando ci tornerò, all'onsen. Penso a come dev'essere l'inverno, con la neve.
I suoni ovattati che arrivano dall'altro lato dell'onsen mi riportano qui: riconosco una risata, piccola, di Greta, o forse sta salutando.
Mi alzo, mi lavo i piedi con l'acqua fredda del rubinetto, ancora una volta. Allungo una mano e recupero l'asciugamano: mi asciugo senza bagnare la pedana di legno su cui ci si riveste.
Proprio prima di uscire mi infilo i sandali. Faccio un passo e spingo la porta, che cigola un po'.
Sono fuori.
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