Parigi attraverso il tetto del taxi
Parigi è sempre la stessa, sempre diversa. Ci sono periodi dell'anno, se ho capito bene, in cui Parigi è sempre un po' piovosa: come la mattina in cui ho scattato la foto.
Conosciamo quel che conosciamo per approssimazioni successive. Per investigazioni incrementali, direi. Capita un po' con tutto — capita così tanto che scommetto qualcuno ha dato un nome al fenomeno.
La prima volta che metti piede in una città la vedi, la vivi, ne capisci un primo strato: molte città, molte, all'inizio hanno un che di perfezione. Anche nella loro imperfezione, un ordine di qualche tipo emerge. E quell'ordine è ciò che arriva per primo. In un certo senso, a quel punto, è un po' come se la città fosse ancora una mappa, con pochi dettagli.
Poi ci torni e ci torni e ci torni.
Ed è ad un certo punto di questi ritorni che la città prende davvero la sua forma, quella in cui ne hai una percezione aumentata, che contiene tutto quel che c'è nello strato di primo accesso e negli strati successivi.
Prendi una città che ti sta a cuore e ricorda la prima volta che ci sei stato, l'emozione di quella prima volta. E poi le volte successive: il momento in cui ti sei accorto che le facciate delle case non sono poi così uniformi, che ci sono delle tracce del tempo recente; oppure il momento in cui ti sei accorto dello sporco di fianco ai marciapiedi.
Ecco: io amo questo sprofondare ciclico, quest'immersione nella realtà. E amo le città che, dentro di me, sopravvivono a questo processo cipollóso e ne escono più vive di quando le ho conosciute.
Parigi, certo. Barcellona, per dirne un'altra.